Azione revocatoria ordinaria e fallimentare. Rapporto con l'azione di simulazione. Ipotesi applicative e casi giurisprudenziali.

Il codice civile appresta una serie di strumenti a tutela degli interessi dei creditori in ipotesi di atti posti in essere in pregiudizio delle loro ragioni.

La tutela de qua risponde alla ratio di preservare l’integrità del patrimonio del debitore al fine di garantire il creditore circa la solvibilità del primo e la possibilità di un sicuro adempimento dell’obbligazione.

In quest’ottica si riscontra la funzione svolta dall’azione revocatoria ordinaria, art. 2901 c.c., che consente al creditore di “recuperare” quel bene uscito dal patrimonio del debitore attraverso una dichiarazione di inefficacia dell’atto di disposizione che pregiudica le sue ragioni.

Si tratta di un rimedio che reintegra “in via fittizia” il patrimonio del debitore, in quanto l’atto è solo inopponibile al creditore restando efficace nei confronti di altri soggetti.

Il legislatore regola le condizioni che permettono al creditore di ricorrere all’azione de qua e sono:

  • la conoscenza da parte del debitore del pregiudizio che l’atto arreca alle ragioni del creditore oppure la dolosa preordinazione, quando l’atto è anteriore al sorgere dei crediti;
  • in ipotesi di atto a titolo oneroso, la consapevolezza del pregiudizio arrecato al creditore anche da parte del terzo ovvero, in caso di atto anteriore, la partecipazione alla dolosa preordinazione (cd. consilium fraudis e partecipatio fraudis).

Ulteriori presupposti sono individuati nell’esistenza di un credito che può essere anche soggetto a termine o a condizione e nell’esistenza di un atto di disposizione che pregiudica gli interessi del creditore. Dottrina e Giurisprudenza offrono un’interpretazione ampia del concetto di atto di “disposizione”, nel senso di atto in grado di influire in misura negativa sul patrimonio dello stesso.

L’azione revocatoria si prescrive nel termine di cinque anni, che decorre dalla data dell’atto (art.2903 c.c.).

L’art. 2904 c.c., quale norma di chiusura della sezione dedicata all’azione revocatoria, opera un rinvio alle disposizioni sull’azione revocatoria in materia fallimentare (art.64 ss.L.F.).

In particolare la disciplina relativa all’azione in oggetto, contenuta nella legge speciale, compie una preliminare distinzione tra :

  • atti a titolo gratuito, che sono inefficaci rispetto ai creditori della massa fallimentare quando sono compiuti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento (art. 64 L.F.);
  • atti a titolo oneroso, per i quali l’art. 67 L.F. offre un’elencazione di quelli revocabili e quelli non revocabili e consente al terzo di fornire  la prova contraria, ovvero la mancata conoscenza dello stato di insolvenza del debitore al momento dell’atto, al fine di sottrarre i beni conseguiti all’azione de qua.

Anche con riferimento ai pagamenti, questi sono privi di effetto se riguardano obbligazioni che scadono nel giorno della dichiarazione di fallimento o posteriormente, quando sono eseguiti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento (art.65 L.F.). Si tratta di un periodo cd. “sospetto”, in quanto il legislatore presume che vi sia una preordinata volontà del debitore di sottrarre i beni dal suo patrimonio con l’intento di pregiudicare le ragioni dei creditori.

Il legislatore, in materia fallimentare, richiama le norme del codice civile in tema di revocatoria ordinaria, art.66 L.F., per consentire al curatore di domandare una pronuncia di inefficacia degli atti integranti una delle ipotesi previste dalla legge fallimentare.

La competenza è del tribunale fallimentare, data l’esistenza di una procedura concorsuale nei confronti del debitore-fallito.

I rapporti tra revocatoria ordinaria e revocatoria fallimentare sono di genere a specie, in quanto la dottrina ritiene che il modello generale dell’azione revocatoria sia quello offerto ex art. 2901 c.c. della prima fattispecie, alla quale le norme in materia fallimentare rinviano. Mentre, laddove interviene una procedura concorsuale, soccorrono dei criteri più rigidi, che consentono di enucleare, con precisione, gli atti revocabili, regolati preventivamente dal legislatore nelle previsioni di legge speciale.

Ne è la conferma anche una norma ad hoc circa gli effetti della revocatoria fallimentare (art.70 L.F.), che riconosce a colui che ha restituito quanto aveva ricevuto di insinuarsi al passivo fallimentare per l’eventuale credito.

Un ulteriore ambito di raffronto è quello che riguarda i rapporti tra revocatoria ordinaria ed azione di simulazione.

Sulla base del disposto dell’art.1416 c.c., i creditori che ricevono pregiudizio dall’atto simulato possono far valere la simulazione ed in ipotesi di conflitto con i creditori chirografari del simulato acquirente, prevalgono se il credito è anteriore all’atto simulato.

La tutela dei creditori dinanzi al meccanismo della simulazione è ampia, in quanto essi godono anche di una disciplina di favore in ordine alla prova dello stesso (art. 1417 cc.), non essendo soggetti all’onere di fornire la prova scritta della simulazione ( cd. controdichiarazione).

Pertanto, in ipotesi di negozio simulato, il creditore possiede due strumenti di tutela: l’azione di simulazione e quella revocatoria.

Occorre distinguere tra simulazione assoluta: in tale ipotesi il creditore può agire direttamente verso i beni del debitore non essendo questi mai usciti dal suo patrimonio, oppure con l’azione revocatoria verso l’atto simulato.

In ipotesi di simulazione relativa, egli può agire in revocatoria contro l’atto simulato o contro l’atto dissimulato ma, in tal caso, deve preliminarmente ottenere una sentenza dichiarativa della simulazione.

Circa le varie ipotesi applicative dell’azione revocatoria, in alcune ipotesi interviene direttamente il legislatore al fine di regolare l’esperibilità o meno dell’azione. Un esempio è quello relativo ai debiti scaduti, per i quali il legislatore esclude la revocabilità in sede ordinaria, art.2901 co.3 c.c. Invece, in materia fallimentare, l’art. 67 co.1 n.2) dispone la revocabilità ove tali pagamenti non sono effettuati con denaro o laddove compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, purché tali debiti siano esigibili.

La differente disciplina si spiega nell’esigenza di una tutela rafforzata dell’interesse del creditore nell’ambito di una procedura concorsuale, che coinvolge più creditori legati da particolari rapporti professionali con il fallito.

Altra fattispecie regolata ex lege è quella relativa alla revocabilità degli atti di prestazione di garanzia. L’art. 2901 co.2 c.c. dispone che tali atti, anche relativi a debiti altrui, sono considerati a titolo oneroso, quando sono contestuali al credito garantito.

Pertanto le condizioni di revocabilità sono quelle contenute nel co. 1 n.2) art. cit. ovvero la conoscenza da parte del terzo del pregiudizio arrecato al creditore ovvero la dolosa preordinazione se l’atto è anteriore al sorgere del credito.

In ipotesi di azione revocatoria avverso un atto di concessione di ipoteca, l’effetto è quello di ricondurre il creditore ipotecario nell’alveo dei creditori chirografari, rispetto al solo creditore che agisce in revocatoria, non potendo il primo far valere il titolo di prelazione verso quest’ultimo.

Anche in ipotesi di crediti litigiosi, l’azione revocatoria si atteggia diversamente, in quanto il presupposto per l’operatività della stessa (dichiarazione di inefficacia rispetto al creditore revocante e conseguente possibilità di agire esecutivamente sul bene) presuppone che il terzo sia proprietario del bene. Invece in ipotesi di lite pendente ed avente ad oggetto la contestazione del diritto di proprietà sul bene o la spettanza del diritto di credito, l’azione revocatoria ha effetto solo condizionatamente alla pronuncia sulla questione principale, ovvero solo se tale controversia si risolve nel riconoscimento dell’esistenza del diritto di credito o della titolarità del diritto di proprietà sul bene.

Un caso peculiare è quello che verte sulla revocabilità o meno dei pagamenti eseguiti nei confronti di un monopolista legale. In tale ipotesi lo schema dell’azione revocatoria deve incardinarsi nella struttura dell’obbligazione in situazioni di monopolio legale. Il problema è stato affrontato dalla giurisprudenza di legittimità, in particolare con riferimento alla revocatoria fallimentare , per le ipotesi di pagamenti dell’utente quale corrispettivo per un servizio gestito in situazione di monopolio legale, quando il primo verte in stato di insolvenza. La giurisprudenza ha evidenziato la necessità di bilanciare i contrapposti interessi, da un lato, quello del creditore, pregiudicato da un atto di disposizione dovuto, dall’altro lato, quello del gestore del servizio, interessato a conseguire il corrispettivo per il servizio fornito. I giudici di legittimità hanno risolto il contrasto sorto in merito affermando che il monopolista legale deve essere posto nella stessa posizione di tutti gli altri soggetti contraenti, così come il contratto (e, di conseguenza, i pagamenti) concluso dallo stesso è soggetto a tutti gli ordinari rimedi previsti dal codice civile. Ne deriva che il relativo pagamento, effettuato nel periodo sospetto, è soggetto ad azione revocatoria, sub specie di revocatoria fallimentare.

Altro ambito, fonte di numerose pronunce giurisprudenziali, è quello relativo alla revocabilità o meno degli atti compiuti dai coniugi in attuazione degli accordi intercorsi in sede di separazione consensuale.

In ambito di revocatoria fallimentare, l’art. 69 dispone che gli atti a titolo oneroso elencati nella prima parte dell’art.67 sono revocabili ed anche quelli a titolo gratuito compiuti nel biennio antecedente alla dichiarazione di fallimento, se il fallito esercitava un’impresa commerciale. Unico limite alla revoca risiede nella prova, a carico del coniuge, dell’ignoranza dello stato di insolvenza del coniuge fallito.

Il problema fondamentale che si è posto in ordine agli atti di disposizione in attuazione degli accordi di separazione è se questi integrino atti a titolo oneroso o atti a titolo gratuito, con la conseguenza che sarebbero revocabili al ricorrere di presupposti differenti quanto al periodo sospetto ( in un caso, atto a titolo oneroso, il periodo è di un anno, mentre per gli atti a titolo gratuito il periodo in questione è di due anni).

La giurisprudenza di legittimità ha optato per una ricostruzione in chiave di natura onerosa di tali atti, ritenuta prevalente rispetto a quella gratuita ed inquadrabile nello schema della vendita.

Ne deriva, come conseguenza di tale interpretazione, l’assoggettabilità anche alla revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c.

Un ulteriore ambito di indagine sull’ammissibilità di una revoca riguarda gli atti costitutivi del fondo patrimoniale realizzato da un coniuge o da un terzo.

Anche in tal caso la dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate circa la natura onerosa o gratuita dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale.

Si è ritenuto che la natura dell’atto in questione debba essere ricostruita alla luce della ratio dell’istituto disciplinato ex art. 167 ss.c.c. Sulla base del disposto contenuto in tale previsione, i coniugi o il terzo hanno facoltà di costituire un fondo patrimoniale al fine di far fronte ai bisogni della famiglia. Per effetto di tale scopo i beni sono vincolati al soddisfacimento in via esclusiva di tali esigenze.

In quanto atto che imprime un vincolo di destinazione sui beni che vengono ad essere ricompresi nel fondo patrimoniale la giurisprudenza ha sostenuto la revocabilità dell’atto di costituzione in quanto tale da pregiudicare gli interessi dei creditori, sottraendo dal patrimonio del debitore tali beni in modo definitivo e permanente.

Risolto l’aspetto relativo alla revocabilità dell’atto di costituzione del fondo patrimoniale, la giurisprudenza di legittimità ha affrontato quello relativo alla sua natura ed ha concluso per il carattere gratuito dello stesso, ritenendolo sub specie dei negozi gratuiti familiari.

Pertanto la sua revoca dovrà osservare i presupposti ex art.2901 c.c., ovvero il consilium fraudis del coniuge  costituente il fondo, oppure quelli ex art. 69 L.F., posto in essere due anni prima della dichiarazione di fallimento e la conoscenza dello stato di insolvenza del coniuge fallito da parte dell’altro coniuge.

Il problema della revocabilità ha investito anche i contratti preliminari di vendita di immobili.

In merito la Legge Fallimentare regola tale ipotesi all’art. 67 co.2, dove esclude la revoca degli atti di vendita e dei preliminari di vendita trascritti ex art. 2645-bis c.c., per i quali non siano cessati gli effetti, ove conclusi al giusto prezzo ed aventi ad oggetto beni immobili ad uso abitativo, destinati a costituire abitazione principale dell’acquirente e dei parenti entro il terzo grado.

Il legislatore risolve la questione alla luce dei principi della trascrizione, ritenendo salvi i diritti acquistati dai terzi in buona fede, a titolo oneroso, se trascritti prima della domanda di revocazione.

Pertanto nel conflitto tra creditore che agisce in revocatoria e terzo acquirente prevale chi ha trascritto per primo l’atto che fonda la propria pretesa ( domanda di revocazione o atto di acquisto).

Peculiare è l’ipotesi della revocabilità o meno del secondo atto di alienazione compiuto dall’unico dante causa e trascritto preventivamente dal secondo dante causa contro il primo.

La questione in oggetto deve essere risolta analizzando preventivamente la posizione del secondo acquirente trascrivente tempestivo contro il dante causa. Anche in tale ipotesi eventuali conflitti devono essere risolti alla luce delle regole della trascrizione degli atti traslativi di diritti su beni immobili.

Il legislatore ha disposto che gli effetti della revocatoria non si estendono nei confronti del subacquirente, il quale, per sottrarre il bene dalla revoca, deve essere anche un acquirente a titolo oneroso di buona fede, non essendo sufficiente la sola trascrizione dell’atto di acquisto per prevalere sul creditore che agisce in revoca, art.2901 co.4 c.c.

Quanto, infine, agli atti dispositivi di beni cadenti in comunione de residuo preordinati a pregiudicare la aspettative dell’altro coniuge alla loro caduta in comunione si discute se sia configurabile o meno la revoca.

L’istituto della comunione de residuo assume dei tratti peculiari nell’ambito della disciplina dei rapporti patrimoniali tra coniugi, in quanto differisce, nel tempo, il diritto di un coniuge sui beni che non ricadono in via immediata nella comunione ma solo in via successiva. È  l’ipotesi di cui alla lett.b) co.1 art.179 c.c., che regola l’oggetto della comunione ed individua i frutti prodotti dai beni di ciascun coniuge, percepiti e non consumati al momento dello scioglimento della comunione.

Dottrina e giurisprudenza risolvono diversamente la questione relativa al diritto su tali beni. Secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza tale diritto sorgerebbe solo al momento dello scioglimento della comunione, quindi sui soli beni esistenti in tale momento. Invece, secondo un altro orientamento viene in rilievo un diritto condizionato all’evento (certus an incertus quando) dello scioglimento della comunione.

Pertanto, secondo quest’ultima impostazione, al creditore –coniuge è consentito l’esercizio di tutte quelle azioni volte a conservare le aspettative su tali frutti perché cadano effettivamente nella comunione de residuo.

Di conseguenza ove il coniuge agisca preordinatamente per sottrarre tali beni alla comunione de residuo (consilium fraudis) sarebbe consentito all’altro coniuge di agire in revocatoria ex art. 2901 c.c.

La Corte di Cassazione è intervenuta sul punto ed ha affermato inizialmente l’esistenza di un vincolo di destinazione di tali beni al soddisfacimento dei bisogni della famiglia, ponendo un limite alla possibilità del coniuge di consumarli ed offrendo un potere di controllo all’altro coniuge a tutela delle proprie aspettative su tali beni.

Con un successivo intervento la Corte di Cassazione ha ritenuto insussistente il dovere del coniuge di destinare ai bisogni della famiglia tutti i proventi dei propri redditi, in quanto un tale limite al potere di godimento non sarebbe in linea con il sistema di riforma introdotto dalla Legge del 1975 né potrebbe ammettersi un potere dell’altro coniuge di sindacare o impedire l’utilizzo delle disponibilità individuali del coniuge.

Avv. Enrica Sirizzotti