Il principio di offensività e i delitti di falso documentale

Il principio di offensività subordina l’irrogazione della sanzione penale ad una offesa al bene protetto dalla norma.

In virtù del principio in discorso dunque, ai fini della irrogazione della sanzione penale, non è sufficiente che sia stata integrata una fattispecie astrattamente prevista dal legislatore come reato, ciò rappresenta condizione necessaria ma non sufficiente, occorre altresì che sia stata arrecata un’offesa al bene protetto dalla norma. Il principio di offensività non è espressamente menzionato dal nostro legislatore, ma è pacificamente riconosciuto, trovando fondamento sia a livello costituzionale, sia a livello di legislazione ordinaria.

Fondamenti costituzionali si rinvengono negli artt. 13, 25, comma 2, 25 e 27, 27, comma 3. L’art. 13 sancendo l’inviolabilità della libertà personale ne subordina la restrizione ad una lesione di un bene almeno di pari rango. L’art. 25, comma 2, espressamente subordina la irrogazione della sanzione alla commissione di un “fatto”. Il combinato disposto tra l’art. 25 e 27, mostra come il legislatore in tema di conseguenze del reato abbia optato per il sistema del doppio binario, distinguendo tra pene e misure di sicurezza. Le prima svolgono una funzione general-preventiva, le seconde una funzione special-preventiva, sicché irrogare la pena a fronte di una mera e formale disubbidienza normativa significherebbe attribuire alla pena la funzione propria della misura di sicurezza.

L’art 27 , comma 3, prevede la funzione tendenzialmente rieducativa della pena, per assolvere la quale è evidente che il reo debba comprendere il disvalore della propria condotta, ciò che non sembra possibile ove la sua condotta non abbia leso e messo in pericolo alcun bene protetto dall’ordinamento. A livello di legislazione ordinaria, il principio di offensività si desume dalla norme dettate in tema di processo minorile che prevedono il non luogo a procedere per fatti di particolare tenuità. L’art. 115 c.p. prevede la non punibilità in caso di accordo o istigazione a commettere un reato che non sia stata accolta ( salva l’applicabilità di una misura di sicurezza). L’art. 49, comma 2, infine, esclude la punibilità nel caso sia impossibile il verificarsi l’evento dannoso o pericoloso, per inidoneità dell’azione od inesistenza dell’oggetto. Il principio in discorso è stato riconosciuto anche dalla Corte Costituzionale, sebbene solo poche volte la stessa abbia dichiarato l’incostituzionalità di una norma per conclamata violazione del principio di offensività. Ciò, per esempio, è avvenuto con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 688 c.p.: si è osservato che, venuta meno la fattispecie incriminatrice di base di cui al comma 1, è irragionevole, oltre che contrario al principio di offensività, continuare a punire l’ipotesi aggravata di cui al secondo comma.

La giurisprudenza dal canto suo distingue tra un’offensività in astratto e un’offensività in concreto. La prima si rivolge al legislatore e costituisce un vincolo nella scelta dei beni oggetto di tutela penale. Un primo orientamento ritiene penalmente tutelabili tutti i beni costituzionalmente rilevanti, tuttavia si osserva che così opinando finirebbero per rimanere esclusi i beni emergenti dall’evoluzione della realtà e della società ed ugualmente meritevoli di tutela ( si pensi all’ambiente). Ecco che l’opzione prevalente ritiene di annoverare tra i beni passibili di tutela penale tutti quei bene ed interessi non in contrasto col dato normativo costituzionale e meritevoli di tutela alla stregua dei principi fondamentali del nostro ordinamento. L’offensività in concreto, invece, è un criterio che si rivolge al giudice nell’individuazione delle condotte concretamente lesive o esponenti a pericolo il bene oggetto di protezione. Il principio in discorso esprime tutta la sua importanza con riguardo alla tematica dei delitti di falso, in particolare il falso documentale ( art. 476 c.c. e ss. ).

Nelle fattispecie di falsità in atti, infatti, è molto sottile il limite tra penalmente rilevante e penalmente irrilevante considerato anche il carattere sfuggente del bene oggetto di tutela. L’orientamento dominante identifica il bene oggetto di protezione normativa nella “fede pubblica”, intesa quale fiducia della collettività in determinati emblemi, simboli o segni, a garanzia della certezza dei traffici giuridici ed economici. A sostegno di tale tesi vi è la relazione di accompagnamento al codice penale che riporta pressoché fedelmente la citata affermazione. Altro orientamento, per vero minoritario, ricostruisce i delitti di falso come reati plurioffensivi in cui accanto alla fede pubblica vi è un diverso interesse di volta in volta tutelato dalla specifica norma di riferimento.

Tuttavia tale tesi sembra addossare al giudice un onere sin troppo gravoso e cioè l’individuazione dell’ulteriore interesse tutelato dalla singola norma che spesso non ne fa alcuna menzione. Si preferisce, pertanto, inquadrare le fattispecie di falso nell’ambito dei delitti monoffensivi, aventi ad oggetto di tutela un solo bene, identificato nella fede pubblica. Il bene tutelato ha avuto un ruolo rilevante nell’identificazione del concetto di atto pubblico richiamato dall’art. 479 c.p. ai fini dell’integrazione del reato di falso ideologico in atto pubblico.

Si è affermato che ciò che conta ai fini della definizione di un atto come pubblico non è solo la qualità di chi lo redige ( il pubblico ufficiale), ma altresì’ il collegamento funzionale dell’atto con la funzione pubblica svolta dal redigente. Alla luce di tale principio elaborato dalla giurisprudenza di legittimità, pertanto, è stato escluso il reato di falso ideologico con riferimento alla condotta del pubblico dipendente che non indichi sul cartellino segna-tempo gli allontanamenti dal luogo di lavoro. La timbratura del cartellino, infatti, non ha alcuna rilevanza pubblicistica in quanto afferisce ad una circostanza materiale del rapporto lavorativo tra la P.A. e l’impiegato, e dunque avente rilevanza esclusivamente nei rapporti contrattuali tra costoro. Allo stesso modo, nell’individuazione della nozione di pubblico ufficiale si è aderito ad una nozione oggettiva di pubblico ufficiale, prescindente da un investitura formale in tal senso e della sua validità, ed avendo riguardo alla natura dell’attività svolta. Pertanto, è stato ritenuto che il difensore che verbalizzi infedelmente le dichiarazioni ricevute ai sensi degli artt. 391-bis e 391-ter c.p.p. commette il reato di falso ideologico di cui all’art. 479 c.p. e non il reato di cui all’art. 481 c.p.

Infatti, ad onta della definizione del difensore quale privato esercente un servizio di pubblica necessità di cui all’art. 359 c.p., egli, nell’espletamento delle attività di cui ai citati artt. 391-bis e 391-ter, svolge un’attività di pubblico interesse e, dunque, lesiva di quel bene protetto dalla norma che si identifica nella fede pubblica ove la verbalizzazione avvenga in modo infedele. Se è vero che il difensore non ha l’obbligo di ricercare la verità, ma solo circostanze utili al suo assistito è altrettanto vero che lo stesso non possa manipolare la realtà cosi ledendo l’interesse della generalità dei consociati al corretto svolgimento delle indagini. Sembra evidente allora che nell’individuazione dell’offensività della condotta occorra partire dall’esatta individuazione del bene protetto dalla norma per poi procedere nella verifica della concreta lesione o esposizione a pericolo del bene protetto. Quest’ultima verifica, come detto, è particolarmente impegnativa nei reati di falsità in atti vista la difficoltà di individuare con immediatezza l’efficacia offensiva della condotta rispetto all’interesse tutelato.

Ciò ha indotto un vivace dibattito giurisprudenziale che ha partorito dei principi fondamentali nell’individuazione delle condotte falsificatorie effettivamente offensive e, dunque, penalmente rilevanti. Si suole distinguere tra falso grossolano, falso innocuo e falso irrilevante. Il falso grossolano si estrinseca in una condotta inidonea in astratto ed in concreto a ledere il bene protetto dalla norma. L’inidoneità ingannatoria è rivelata sul piano oggettivo dall’evidenza della divergenza tra ciò che è rappresentato e la realtà, sul piano soggettivo dalla riconoscibilità di tale divergenza da parte anche di chi non abbia specifiche competenze.

In tale ipotesi si è di fronte ad un reato impossibile ex art. 49 , comma 2, c.p. per inidoneità dell’azione con conseguente esclusione della punibilità. Il falso innocuo invece si identifica in quella condotta idonea ad ingannare ma solo in astratto e non in concreto, ecco che anche qui la punibilità è esclusa ai sensi dell’art. 49, comma 2, c.p. per inidoneità dell’azione ad cagionare l’evento dannoso o pericoloso. Infine si discorre di falso irrilevante allorquando la condotta falsificatroria, benché idonea in astratto ed in concreto ad ingannare, tuttavia l’inganno che ne consegue non incide sul risultato di una decisone o di una data situazione, ovvero investe atti del tutto irrilevanti a tali fini.