Società pubbliche: attività amministrativa ed attività di impresa

Fermo restando quanto disposto dalla disciplina civilistica in materia di attività di impresa, art. 2082 c.c., deve tenersi conto che quando tale attività è svolta da una Pubblica Amministrazione vengono in evidenza tratti peculiari, che si riflettono anche in ordine alle prescrizioni normative che la regolano.

Premesso che la P.A. può ricorrere allo strumento societario per esercitare l’attività di impresa, cd. Società pubbliche, deve tenersi conto della fondamentale distinzione tra: società pubbliche che svolgono attività di impresa e società pubbliche che svolgono attività amministrativa.

Nella seconda ipotesi si tratta di società che sono sostanzialmente equiparate alle Pubbliche Amministrazioni, con conseguente regolamentazione della loro attività alla luce delle norme procedimentali previste dalla Legge n. 241 del 1990 e di quelle processuali contenute nel Codice del Processo Amministrativo, D.Lgs. 104/2010.

Diversamente, laddove si verta in ipotesi di società del primo tipo l’attività posta in essere dalle stesse deve considerarsi propriamente “attività di impresa”, come risulta disciplinata e regolata dalle norme civilistiche, in particolare dal Codice Civile.

Presupposti indefettibili per individuare le due forme societarie sono:

il metodo: “non economico” quando si ha attività amministrativa; di tipo “economico” quando, invece, si ha attività di impresa;

il mercato: in caso di attività amministrativa, la società opera in un mercato non concorrenziale; quando svolge attività di impresa, la società opera in un mercato concorrenziale.

Individuati i criteri generali di distinzione tra i due tipi di società pubbliche, la giurisprudenza amministrativa ha mostrato particolare attenzione nel definire ed enucleare il regime giuridico delle società pubbliche che svolgono attività di impresa.

La questione si snoda sotto un principale e preliminare aspetto: in quali casi ed a quali condizioni sia consentito all’Ente Pubblico di costituire una società di capitali per svolgere attività di impresa.

Il Consiglio di Stato ha affermato che il principio generale è contenuto nell’art.27, comma 3, L.244/2007, che sancisce il divieto per le Pubbliche Amministrazioni di cui all’art.1, comma 2, D.Lgs. 30 marzo 2001, n.165 di “[…]…. costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e di servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società…..[…]”.

Il caso sottoposto all’attenzione della giurisprudenza amministrativa riguardava un Istituto Universitario che, dopo aver acquistato le quote di una società privata proprietaria di un complesso immobile, modificava il proprio oggetto sociale per includere nelle attività della società anche quelle relative a servizi non direttamente riconducibili alle finalità istituzionali dell’università stessa. Tale operazione veniva attuata con la costituzione di una nuova società a socio unico, deputata a svolgere e gestire le relative attività.

Il Consiglio di Stato, ripercorrendo l’iter normativo ex L.244/2007 e le coordinate fondamentali della materia anteriori alla citata legge, afferma che non è consentito costituire società per azioni per perseguire interessi diversi da quelli istituzionali dell’Università stessa#.

I Giudici di II grado evidenziano che la costituzione di una società commerciale è ipotesi ben diversa da quella della costituzione di una società in house. Quest’ultima è connotata dai seguenti requisiti: partecipazione totalitaria pubblica, esclusione dell’apertura al capitale privato, controllo analogo, attività esclusivamente o prevalentemente dedita al socio pubblico. Il modello descritto si presenta come un modulo organizzativo neutrale, che rientra nell’autonomia organizzativa dell’ente, con il limite intrinseco del perseguimento dei fini istituzionali dell’ente stesso.

Diversa configurazione assume una società commerciale che non opera con l’ente socio ma sul mercato, in concorrenza con operatori privati, accettando commesse da enti pubblici e privati. In tal caso, la società commerciale facente capo all’ente pubblico necessità di un’espressa previsione legislativa e non può ritenersi consentita in termini generali.

In egual misura si è espressa la Corte Costituzionale con sentenza n.326/2008, nella quale ha sottolineato la necessità di “evitare che soggetti dotati di privilegi operino in mercati concorrenziali”.

La posizione adottata dalla giurisprudenza nazionale è stata ritenuta in armonia con il paradigma normativo comunitario, in cui è fatto divieto agli Stati membri di emanare o mantenere, nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui riconoscono diritti speciali o esclusivi, misure contrarie alle disposizioni dei trattati, con particolare riguardo a quelle in tema di tutela della concorrenza e divieto di erogazione di aiuti allo Stato.

Altro argomento di discussione in sede giurisprudenziale attiene all’interpretazione dell’art.13 D.L.223/2006, convertito nella L. 4.8.2006 n.248.

Il Consiglio di Stato ha tenuto conto di quanto affermato dalla Corte Costituzionale con sentenza n.326 del 2008 per sciogliere il nodo interpretativo relativo all’ambito applicativo del divieto di cui sopra.

Nella valutazione della ratio sottesa al suddetto divieto, i giudici della Corte Costituzionale prendono le mosse dalla distinzione tra attività amministrativa ed attività di impresa di enti pubblici per sostenere che l’obiettivo della normativa richiamata non è quello di negare o limitare la libertà di iniziativa economica degli Enti territoriali, ma quello di tenere distinte e separate le attività propriamente di impresa dalle funzioni amministrative.

Il relativo divieto di cui all’art.13 D.L.citato di fornire prestazioni a Enti terzi colpisce le società pubbliche strumentali alle amministrazioni regionali o locali, che esercitano attività amministrativa in forma privatistica, non anche le società destinate a gestire servizi pubblici locali che esercitano attività di impresa di enti pubblici.

Con particolare riferimento ai soggetti colpiti dal relativo divieto, la giurisprudenza amministrativa ha ritenuto che: “lo stesso fosse applicabile alle società strumentali e non anche alle società a partecipazione pubblico-privata. Il divieto è stato ritenuto giustificato dall’essere le società strumentali una longa manus delle Amministrazioni pubbliche, operanti per queste ultime e non per il pubblico”.

Non è stato, invece, ritenuto operante per le società a partecipazione pubblica che producono beni o servizi per il pubblico in regime di concorrenza.

Sulla specifica questione dell’estensibilità del divieto di cui all’art.13 D.L. citato alle cd. società di terzo grado, quelle non costituite da enti pubblici e non destinate a soddisfare esigenze strumentali della Pubblica Amministrazione, il Consiglio di Stato evidenzia che alcune decisioni più restrittive hanno ritenuto lo stesso applicabile laddove l’assunzione avvenga con una quota di capitale pubblico.

Nello specifico, i Giudici di II grado ritengono che: “[……] il presupposto per l’applicazione della citata norma è che la società costituita o posseduta dall’ente locale svolga servizi strumentali per lo stesso. In tali casi la finalità del divieto sarebbe quella di evitare effetti distorsivi della libera concorrenza, che si verificherebbero in via mediata, ossia fruendo dei vantaggi derivanti dall’investimento del capitale di una società strumentale in altro soggetto societario costituito con finalità neppure indirettamente strumentali ma intrinsecamente imprenditoriali. […] Infatti, l’utilizzazione di una società strumentale per partecipare, attraverso la creazione di una società di terzo grado, a gare ad evidenza pubblica comporterebbe, sia pure indirettamente, l’elusione del divieto di svolgere attività diverse da quelle consentite a soggetti che godano di una posizione di mercato avvantaggiata”.

A cura dell'Avv. Enrica Sirizzotti