Il Comune può essere condannato a risarcire i danni causati dal randagismo (Cassazione Sez. III, 23 agosto 2011, n. 17528)

Quanti di voi avranno avuto un accenno di aggressione da parte di cani randagi mentre erano alla guida del proprio motociclo o essere rincorsi alla guida della propria auto? E quanti, ancora, mentre a piedi si recavano in giro per commissioni hanno avuto un cane attaccato ai polpacci o alle caviglie?

Episodi alquanto fastidiosi e, in alcuni casi, addirittura causa di sinistri o lesioni.

Un orientamento della nostra Corte di Cassazione ha sancito che, in questi casi, essendo gli animali sotto custodia dell’autorità comunale, ad essa spetta il risarcimento del danno per questo tipo di vicissitudini.

Dunque, se un cane randagio aggredisce un passante può essere condannato il Comune, perché sussiste la violazione del generale principio cosiddetto del neminem laedere.

La Corte di Cassazione torna ad occuparsi di responsabilità per i danni cagionati da cani randagi, affermando il seguente principio di diritto: “i compiti di organizzazione, prevenzione e controllo (anche) dei cani vaganti (siano essi “tatuati, e cioè scomparsi o smarriti dai proprietari, ovvero “non tatuati”) spettano (pure) ai Comuni… tenuti anch’essi, in correlazione con gli altri soggetti pubblici (e non) indicati dalla legge, ad adottare concrete iniziative e assumere provvedimenti volti ad evitare che animali randagi possano arrecare danno alle persone nel territorio di competenza”.

Con il principio anzidetto, la Corte riprende e sviluppa ulteriormente le conclusioni già espresse in materia con la sentenza n. 10190/10, confermando l’impostazione in base devono considerarsi responsabili in via solidale dei danni da randagismo sia la ASL territorialmente competente che il Comune.

L’episodio da cui trae origine la sentenza della Cassazione ha luogo proprio a Napoli, ove con sentenza del 12/2/2010 la Corte d’Appello di Napoli respingeva il gravame interposto dalla sig. R. P. nei confronti della pronunzia Trib. Torre Annunziata 14/5/2002 di rigetto della domanda dalla medesima proposta nei confronti del Comune di Meta di risarcimento dei danni lamentati a seguito del sinistro avvenuto il 12/6/1996, allorquando, mentre percorreva la locale via Caracciolo alla guida del proprio ciclomotore Honda Vision, veniva aggredita da un cane randagio che la faceva cadere dal motociclo, provocandole danni patrimoniali e non patrimoniali.

Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito la P. propone ora ricorso per cassazione.

La Suprema Corte ha già avuto modo di porre in rilievo che la legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo legge 281/1991 demanda alle Regioni l’istituzione dell’anagrafe canina e l’adozione di programmi per la prevenzione ed il controllo del randagismo.

Al riguardo, la legge regionale Campania n. 36/1993 dispone in particolare che alla sua attuazione «provvedono, nei rispettivi ambiti di competenza, la Regione, i Comuni e le USL, con la collaborazione di enti ed associazioni protezionistiche, zoofile e animalistiche» (art. 1, comma 4). Prevede quindi l’istituzione dell’anagrafe canina (art. 3), la realizzazione di vaccinazioni e controlli sanitari ( art. 4 ), la costruzione di «rifugi municipali per cani» (già canili municipali) (art. 5), il controllo del randagismo (art. 7), la promozione di iniziative di informazione e di educazione (art. 10) nonché l’esplicazione di attività di vigilanza a mezzo (anche) di guardie zoofile comunali (art. 11).

Orbene, emerge già alla stregua di tali richiami evidente come compiti di organizzazione, prevenzione, e controllo (anche) dei cani vaganti (siano essi «tatuati», e cioè scomparsi o smarriti dai proprietari, ovvero «non tatuati») spettano (pure) ai Comuni, tenuti anch’essi, in correlazione con gli altri soggetti pubblici (e non) indicati dalla legge, ad adottare concrete iniziative e assumere provvedimenti volti ad evitare che animali randagi possano arrecare danni alle persone nel territorio di competenza (cfr. Cass., 28/4/2010, n. 10190).

Risulta non corretta la limitazione della domanda operata dalla corte di merito al mero «dovere istituzionale di ogni amministrazione comunale di prevenire il randagismo», nonché alla rilevanza del fenomeno alla mera attività di «accalappiamento dei cani randagi»; come del pari non corretta è l’affermazione secondo cui all’epoca del sinistro de qua in base al quadro normativo all’epoca vigente siffatta «funzione pubblica» spettava «in via esclusiva» all’unità sanitaria locale territorialmente competente», non potendo pertanto avallarsi la ravvisata irrilevanza della verifica circa la configurabilità della responsabilità del Comune di Meta in merito al sinistro de qua.

Atteso che risulta, in effetti, erronea la limitazione della disamina al mero profilo della «funzione pubblica» svolta dalla P.A., atteso che la stessa corte di merito da atto in motivazione come l’oggetto della pretesa della ricorrente sia costituito dal risarcimento dei danni lamentati in conseguenza del sinistro, dalla considerazione anche di tale (aspetto della) domanda non può dunque prescindersi, spettando ai giudici di merito dare la corretta qualificazione dell’ipotesi di responsabilità nel caso ricorrente, se quella generale ex art. 2043 c.c. ovvero un’ipotesi di responsabilità speciale aggravata ex art. 2051 c.c. o art. 2052 c.c., a tale stregua compiendo quella valutazione nella specie adombrata ma poi in effetti non compiuta, in ragione della -come detto- ravvisata relativa irrilevanza ai fini della decisione.

Va al riguardo osservato che la P.A. è responsabile per i danni causalmente riconducibili alla violazione dei comportamenti dovuti, i quali costituiscono limiti esterni alla sua attività discrezionale e integrano la norma primaria del neminem laedere di cui all’art. 2043 c.c. (cfr., con riferimento a diversa ipotesi, Cass., 27/4/2011, n. 9404).

Va altresì posto in rilievo che il modello di condotta cui la P.A. è tenuta, postula l’osservanza di un comportamento informato a diligenza particolarmente qualificata, specificamente in relazione all’impiego delle misure e degli accorgimenti idonei ai fini del relativo assolvimento, essendo essa tenuta ad evitare o ridurre i rischi connessi all’attività di attuazione della funzione attribuitale.

Comportamento cui la P.A. è d’altro canto tenuta già in base all’obbligo di buona fede o correttezza, quale generale principio di solidarietà sociale -che trova applicazione anche in tema di responsabilità extracontrattuale- in base al quale il soggetto è tenuto a mantenere nei rapporti della vita di relazione un comportamento leale, specificantesi in obblighi di informazione e di avviso nonché volto alla salvaguardia dell’utilità altrui -nei limiti dell’apprezzabile sacrificio-, dalla cui violazione conseguono profili di responsabilità in ordine ai falsi affidamenti anche solo colposamente ingenerati nei terzi.

Condotta che ove tardiva, carente o comunque inidonea provoca o non impedisce la lesione di quei diritti ed interessi la cui tutela è propriamente rimessa al corretto e tempestivo esercizio dei poteri attribuiti per l’assolvimento della funzione.