Il danno non patrimoniale costituisce una categoria ampiamente dibattuta in dottrina ed in giurisprudenza, quanto alla portata applicativa della previsione normativa ed alla concreta risarcibilità dei pregiudizi, diversamente denominati a titolo puramente descrittivo.
Argomento centrale nei più recenti arresti della Corte di Cassazione è quello relativo alla legittimazione ad agire per il risarcimento del danno ex art.2059 c.c. quando la pretesa risarcitoria è avanzata da soggetti che non sono diretti destinatari delle conseguenze pregiudizievoli del fatto illecito.
La questione giuridica, sottoposta all’esame dei giudici di legittimità, tiene conto delle più recenti elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali, che descrivono tale sottocategoria del danno non patrimoniale come “danno riflesso”.
Con tale espressione si suole indicare il pregiudizio arrecato ad un soggetto terzo, ovvero vittima secondaria del fatto illecito, rispetto al soggetto danneggiato, ma pur sempre destinatario delle conseguenze pregiudizievoli subite da quest’ultimo per effetto dell’altrui condotta illecita.
In merito la dottrina e la giurisprudenza operano una distinzione tra l’ipotesi che dal “fatto illecito altrui” derivi la morte del danneggiato e quella in cui lo stesso subisca solo una lesione.
La problematica dei cd. ”danni riflessi” ha trovato un primo ambito di applicazione nel campo dei rapporti familiari, dove il legame con la vittima dell’illecito è più stretto e solido, con la conseguenza che i danni subiti dalla vittima producono riflessi sui soggetti conviventi, intesi come vittime secondarie.
La risarcibilità di tali danni è stata sottoposta al vaglio della giurisprudenza di merito e di legittimità, che hanno dovuto tener conto del caso in cui il “familiare - convivente” agisca quale erede della vittima, dovendo in tale circostanza individuarsi il limite tra le somme che spettano allo stesso iure hereditatis e quelle, invece, che competono iure proprio.
Partendo dall’ipotesi in cui ricorre il decesso della vittima, si riscontra un’iniziale impostazione che ha escluso la risarcibilità dei danni riflessi, muovendo da un’interpretazione letterale e restrittiva della portata dell’art.1223 c.c., che richiede, ai fini dell’azionabilità della pretesa risarcitoria, un danno quale “conseguenza immediata e diretta dell’evento lesivo”.
Dunque, secondo l’impostazione tradizionale, difetterebbe il nesso di causalità, in quanto i pregiudizi subiti dalle vittime secondarie non presentano il presupposto della diretta derivazione del danno dalla condotta del danneggiante, come richiesto dalla previsione citata.
Verrebbe meno anche il requisito della colpa, richiesta ex art.2043 c.c., in quanto al danneggiante non può essere mosso alcun rimprovero per non aver potuto prevedere il danno, cd. riflesso, pur se avesse adottato una condotta più diligente.
Un’apertura verso il riconoscimento della tutela risarcitoria anche ai danni riflessi è stata possibile attraverso l’elaborazione della teoria della “causalità adeguata”, sulla base della quale si è pervenuti ad una lettura più ampia della previsione normativa di riferimento nel codice civile, l’art.1223 c.c..
Alla luce di tale teoria si ritiene che il nesso di causalità è ravvisabile anche quando l’evento rientra nell’ambito di quelli che, secondo una regolarità causale, costituiscono possibile conseguenza della condotta illecita, con esclusione delle sole conseguenze non prevedibili e preventivabili dall’agente.
Per effetto di tale presupposto è ravvisabile una condotta illecita colposa, eziologicamente rilevante ai sensi dell’art.1223 c.c., quando vi sia la prevedibilità ed evitabilità dell’evento attraverso l’adozione di una condotta diligente. In tal modo il concetto di colpa è ricostruito alla luce di uno standard oggettivo e, di conseguenza, la prevedibilità deve essere accertata in astratto.
Le ricadute immediate di tale ricostruzione sul tema del risarcimento dei danni prodotti dalla condotta illecita si evincono in ordine all’ammissibilità della pretesa risarcitoria dei familiari della vittima, risultando prevedibile che la morte della stessa produce dei riflessi negativi sui diritti delle persone legate da un rapporto affettuoso, che viene menomato con la morte del de cuius.
Per effetto di tale apertura interpretativa, formulata dalla giurisprudenza e dalla dottrina, è stato possibile riconoscere la legittimazione degli eredi della vittima ad agire iure proprio per il risarcimento dei danni che, sebbene non hanno una diretta riconducibilità alla condotta del danneggiante, sono produttivi di ripercussioni negative nella sfera giuridica delle persone più vicine al de cuius.
Pertanto si è riconosciuta la natura plurioffensiva della condotta illecita del danneggiante che cagiona la morte del danneggiato.
Con particolare riferimento all’ipotesi della condotta illecita che produce una lesione seriamente invalidante alla vittima, si è evidenziata la necessità di circoscrivere i presupposti legittimanti una pretesa risarcitoria iure proprio del familiare della vittima, con l’evidente scopo di evitare un ristoro duplice per il medesimo fatto illecito.
Aderendo all’orientamento tradizionale, teso ad ammettere una ricostruzione restrittiva dell’art.1223 c.c., non può ritenersi sussistente il diritto del familiare al risarcimento dei danni sofferti dalla vittima, difettando il nesso di causalità e la coincidenza tra persona offesa e danneggiato.
Tali obiezioni, secondo la ricostruzione avanzata dalla teoria della causalità adeguata, possono essere superate attraverso un’interpretazione estensiva dell’art.1223 c.c., risultando configurabile il nesso eziologico tra condotta ed evento anche rispetto agli eventi che sono normale conseguenza della condotta illecita, rectius prevedibili in astratto.
Alla luce di tale impostazione è stato possibile offrire una tutela ai rapporti tra vittima-danneggiato e soggetti legati al primo da un legame di solidarietà, che si fonda non solo su di un rapporto di coniugio ma anche di convivenza.
Le posizioni della giurisprudenza di merito non sono omogenee, in quanto si riscontrano due divergenti orientamenti: l’uno che, aderendo alla tesi tradizionale, esclude il diritto del convivente, in particolare il convivente more uxorio, al risarcimento dei danni derivanti dalla morte del de cuius. Tale assunto muove dalla considerazione dell’assenza di un vincolo giuridico tra le parti e dalla precarietà dello stesso.
All’opposto, una tesi evolutiva considera risarcibile anche il pregiudizio del convivente a seguito della morte della vittima, laddove lo stesso dimostri che sussisteva tra gli stessi una relazione stabile e consolidata, equiparabile al rapporto di coniugio.
Sulla scia di tali riscontri giurisprudenziali e dottrinari si collocano alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione.
In particolare i giudici di legittimità hanno affrontato la questione giuridica in ordine alla legittimazione del concepito al risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale.
Dato atto del pieno riconoscimento nell’ordinamento della soggettività giuridica del concepito, la Corte di Cassazione ha affermato che il diritto di credito del concepito sorge con la sua nascita e deriva dal pregiudizio arrecato allo stesso dal danneggiante per averlo privato del rapporto con l’altro genitore, dunque per essere nato orfano ( si veda Cassaz.,sez.III, 3 maggio 2011, n.9700).
Una tematica connessa ai danni riflessi è quella che investe la questione della risarcibilità del danno arrecato al padre per morte del nascituro in caso di parto cesareo.
In tali circostanze la giurisprudenza e la dottrina hanno ricondotto la pretesa risarcitoria all’inadempimento di un contratto che produce effetti non solo tra le parti (madre e nascituro) ma anche nei confronti dei terzi (in questo caso il padre). Si tratta della categoria, di creazione giurisprudenziale, del contratto con effetti protettivi nei confronti dei terzi.
È evidente che la fonte della responsabilità risiede nel vincolo negoziale, che lega i soggetti coinvolti (medico, partoriente, nascituro e padre). In questo caso si verte in tema di responsabilità contrattuale.
La natura degli interessi sottesi, la cui lesione consente al danneggiato di agire per il risarcimento dei danni non solo patrimoniali ma anche non patrimoniali, è di rango costituzionale. Infatti come si legge nella sentenza del 30.6.2011 n.14405 della Corte di Cassazione, III Sezione, “……omissis…. viene in considerazione un rapporto di natura obbligatoria con effetti protettivi non solo nei confronti delle parti del rapporto stesso, ossia il medico e la partoriente, ma anche nei confronti del terzo, ossia del padre del nascituro, in relazione allo interesse costituzionalmente protetto della integrità del nuovo nucleo familiare in relazione alla nascita programmata e sperata”.