Il nostro codice esclude in maniera non espressa la responsabilità penale degli enti, lo si deduce dall’art. 197 c.p. che prevede un’obbligazione sussidiaria dell’ente per il reato commesso nell’interesse della persona giuridica da parte del rappresentante, dell’amministratore o da parte dei soggetti da costoro dipendenti.
Infatti, è chiaro che una tale obbligazione non avrebbe ragione di sussistere ove l’ente potesse esser configurato come diretto responsabile del reato. Con l’avvento della Costituzione Repubblicana poi si pongono dei problemi di compatibilità con l’art. 27 comma 1 e 3. In particolare, il primo comma del citato articolo, è ormai pacificamente inteso non solo come divieto di responsabilità penale per fatto altrui, ma esso vale ad indicare altresì il principio della personalità della responsabilità penale, la quale, dunque, sussiste solo per un fatto che sia proprio e colpevole. Si comprende allora come sia difficilmente configurabile un ‘atteggiamento psicologico di dolo o di colpa in capo all’ente, con conseguente esclusione di una sua responsabilità penale.
In secondo luogo, il comma 3 del citato articolo, stabilisce la funzione tendenzialmente rieducativa della pena, funzione che non può essere svolta allorquando il reo non avendo avuto alcun coefficiente di partecipazione psichica all’illecito non può comprendere il male compiuto e, quindi, non può aver luogo alcun efficace processo rieducativo. Tuttavia la consapevolezza che spesso il crimine è il frutto di una specifica politica d’impresa ha posto l’esigenza di superare il principio societas delinquere non potest. Sul punto numerosi sono stati gli apporti dottrinali, ma l’osservazione più importante è quella relativa all’irrilevanza del dato codicistico allorquando prende in considerazione solo le condotte umane. Infatti, anche gli enti per agire si servono delle condotte umane della collettività sottostante, ed è in essa collettività che va ricercato quel coefficiente minimo di partecipazione psichica richiesto dall’art. 27 Cost. (c.d. colpa collettiva).
I primi passi verso una responsabilità delle persone giuridiche si è avuto con l’art. 6 della legge n. 689 del 1981, che supera la logica della sussidiarietà di cui al citato art. 197, in favore della solidarietà, fermo restano la possibilità per l’ente che ha pagato di agire in regresso verso l’autore dell’illecito. Ma è stato il progetto preliminare al codice penale elaborato dalla Commissione Grosso ad aver introdotto per la prima volta la configurabilità della responsabilità penale degli enti, grazie al concetto di colpa organizzativa di matrice anglosassone. Il testo approvato dalla commissione, pur non essendo divenuto legge, ha tuttavia fortemente influenzato la disciplina approntata con decreto legislativo dell’8 giugno 2001, n. 231, che disciplina una “responsabilità amministrativa da reato” in ordine alla quale si sono posti taluni dubbi concernenti la sua natura.
Una prima tesi (maggioritaria) , ritiene che si tratti di responsabilità avente natura penale considerato che presupposto operativo della stessa è la commissione di un fatto previsto dalla legge come reato. Si osserva pure come tale reato sia accertato dal giudice penale nel corso di un processo penale finalizzato all’irrogazione di una sanzione afflittiva. Inoltre il decreto in discorso nella sua apertura (artt. 2e 3) richiama i principi propri dell’ordinamento penale (principio di legalità, successione delle leggi, etc). Una seconda tesi, invece, opta per la natura amministrativa della responsabilità in discorso, facendo leva soprattutto sul dato letterale. Si osserva che il decreto parla di responsabilità “amministrativa”, ed anche la sanzione irrogata ha natura amministrativa e si ritiene che la natura giuridica della norma vada desunta dal nomen iuris della sanzione. E’ pur vero che la sanzione viene inflitta all’esito di un giudizio penale, ma spesso accade che una sanzione amministrativa scaturisca all’esito di un processo penale.
Si osserva poi come il decreto citato disciplini aspetti esulanti dal piano penalistico, come le vicende modificative dell’ente (artt.27 e ss), ma, soprattutto, i problemi di compatibilità costituzionale col principio della personalità della responsabilità penale per fatto proprio colpevole. La tesi maggioritaria, tuttavia , opta per la natura penalistica della responsabilità degli enti di cui al d.lgs 231/01, valorizzando il presupposto operativo della stessa e cioè la commissione di un fatto previsto dalla legge come reato. Vengono poi confutate tutte le argomentazioni addotte a sostegno della tesi amministrativa, si osserva innanzitutto che il legislatore nel parlare di responsabilità “amministrativa” intende in realtà dissimulare la natura penale della stessa proprio perché conscio dei problemi di costituzionalità che una responsabilità penale degli enti può suscitare. In secondo luogo, si osserva che non è il nome della sanzione a determinare la natura giuridica della norma, esso costituisce solo un elemento sintomatico, ma, nel dubbio, non può non prevalere un’interpretazione sistematica.